giovedì 16 novembre 2023

"Il Muro del Carlo", un'opera d'arte nascosta ai piedi della Pania...

Il muro del Carlo
 Allora... guardiamo un po'... Cosa può fare un turista che viene in
Garfagnana !? La nostra terra può offrire molte cose... oltre alla rigogliosa natura, alla stupende passeggiate, al relax del corpo e della mente, può anche proporre per gli interessati viaggiatori la visita di monumenti di un certo rilievo, ricchi di storia e di una bellezza unica. La Fortezza delle Verrucole a San Romano ad esempio, o quella di Mont'Alfonso a Castelnuovo; sempre a Castelnuovo c'è la Rocca Ariostesca, dove vi soggiornò proprio Ludovico Ariosto. Immancabile deve essere la visita al suggestivo Eremo di Calomini, o alla millenaria chiesa di San Jacopo a Gallicano, dove al suo interno è costudita una meravigliosa pala di Luca della Robbia. Insomma, luoghi da visitare ce ne sono molti e per tutti i gusti. Esistono poi altri posti che per la loro curiosa e misteriosa storia e per la loro unicità meritano di entrare a pieno titolo nei "luoghi da visitare". Ad esempio, un muro è degno di entrare in questa meritevole lista? A mio avviso si, anche se nella storia i muri non hanno mai contribuito a niente di buono. Difatti i motivi per cui vengono innalzati sono molteplici: costruiamo muri per difenderci, per proteggerci o per sentirci al sicuro. La storia di muri in eredità ce ne ha lasciati una moltitudine, il più famoso è quello di Berlino, f
u costruito
Il muro di Berlino oggi
nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 dal regime comunista dell’Est per arginare il flusso migratorio verso l'altra parte della città, che dire poi della Grande Muraglia Cinese? La costruzione di questo muro aveva scopo difensivo e fu realizzata 
nel terzo secolo A.C. sotto la dinastia di Chin Shih-Huang-Ti con l’obbiettivo di proteggere i confini settentrionali del regno dalle tribù mongole, le sue ultime misurazioni risalgono al 2012 e stimano che sia lungo addirittura 21.196,98km. Ma anche Roma ebbe il suo muro, fu i
Vallo di Adriano, una fortificazione in pietra voluta dall’imperatore Adriano nel secondo secolo D.C., aveva lo scopo di difendere il confine settentrionale dell’Impero Romano in Britannia dalle tribù scozzesi, era lungo ben 173 km. Una cosa che poi deve far riflettere è che sui 70 muri presenti nel mondo oggi, quasi un terzo è stato costruito negli ultimi 50 anni e la maggior parte di essi è stato costruito fra il 2005 e il 2015. Quindi possiamo dire che questi muri sono tutti uguali? No, come abbiamo visto ognuno ha il suo scopo, la sua storia e il suo perchè, proprio come "il muro del Carlo". Ebbene si, anche in Garfagnana abbiamo un muro da pochi conosciuto. Ma chi è questo fantomatico Carlo? E di che muro si tratta? Diciamo che tutto è avvolto nella leggenda e nelle storie che i vecchi raccontano,

fatto stà che questo muro a secco è una vera e propria opera architettonica, fatta sicuramente da una mano "superiore". Di muri a secco in Garfagnana e altrove ne abbiamo visti molti, ma questo sicuramente li supera tutti per la precisione e linearità con cui è stato fatto. Cotanta opera si trova in un bosco di faggi ed è facilmente raggiungibile dal campo di Pianizza, luogo di mille scampagnate, che si trova proprio ai piedi della Pania e sembra che fu proprio qui che un tale di nome "Carlo" cominciò ad edificare questo muro. Qualcuno dice che il Carlo era un pastore dalla corporatura gigantesca e che ogni giorno per oltre cinquant'anni quando portava le sue pecore al pascolo si metteva li e come in una sorta di "tetris" collocava, faceva combaciare ed incastrava pietre su pietre, pare che tutto ciò lo facesse per delimitare il confine della sua proprietà con quella del fratello con cui aveva litigato in malo modo. Alla fine di questi lunghi 50 anni il Carlo passò purtroppo "a miglior vita" e all' Alpe di Sant'Antonio i vecchi raccontavano che al momento della sua sepoltura, l'ordinaria fossa scavata dagli addetti fosse stata troppo piccola per contenere il mastodontico uomo. Infatti fu
proprio grazie alla sua ciclopica corporatura che potè costruire quel muro che alla fine della sua vita arrivò a misurare ben 200 metri di lunghezza, alto circa un metro e 70 e largo 80 centimetri. Insomma, quello che ne venne fuori fu un capolavoro di vera ingegneristica artigianale. Ma ad onor del vero in tutta questa storia i misteri non finisco qui e spesso ci siamo domandati, ma tutte quelle migliaia di pietre da dove arrivano? I vecchi dicono che forse potrebbero arrivare dalla Borra Canala, la pietraia che si trova nei pressi della Pania della Croce, ma vi immaginate allora la fatica ed il tribolo !? Solo un forzuto come il presunto Carlo poteva affrontare l'immane sforzo. E poi, quando sarà stato costruito questo benedetto muro? Nessuno lo sa, nessuno lo ricorda, niente è scritto o documentato. Si potrebbe però ipotizzare che la sua origine risalga al XIX secolo, quando
Borra Canala
costruzioni di questo tipo erano particolarmente usate. Comunque sia, qualsiasi sia la sua genesi per favore non stiamo a scomodare mani extraterrestri o qualsivoglia forza occulta. Qui l'unica mano è stata quella dell'uomo e del duro lavoro di una o più persone, che con la pazienza ed il rispetto per la natura che solo nei lontani tempi andati esisteva, hanno cercato di modellare un territorio nel modo più cortese possibile, trasformando talvolta certe costruzioni in delle opere d'arte di rara bellezza, proprio come è accaduto al "muro del Carlo". A confermare questo pensiero ci ha pensato nel 2018 l'UNESCO che grazie alla proposta 
di otto paesi europei (fra i quali anche l'Italia) ha inserito i muri a secco nel Patrimonio Mondiale
dell'Umanità. Che dire allora... Grazie Carlo per l'onore che hai regalato alla tua e nostra Garfagnana.





  • Le foto riguardanti il "Muro del Carlo" sono state realizzate e gentilmente concesse da Daniele Saisi

giovedì 26 ottobre 2023

La Storia nel piatto... Polenta e ossi e la sua presunta origine

Di soppiatto, piano, piano, un po' alla volta ma finalmente è
arrivato... Alcuni dicevano che quest'anno avrebbe saltato il suo appuntamento con tutti noi. Invece l'autunno come sempre è giunto con tutte le sue immancabili caratteristiche. I colori ad esempio: giallo. arancione, marrone, la fastidiosa ed indispensabile pioggia, le corte giornate... Ma l'autunno non è solo questo. L'autunno è fatto soprattutto di sapori, di cibi, di ricette uniche ed inconfondibili. I funghi, l'uva, la zucca, i cachi, le pere, le nocciole, insomma, questi sono solo alcuni prodotti autunnali con cui possiamo sbizzarrirci per fare mille e mille leccornie. Ma fra tutti questi, in Garfagnana il prodotto principe è uno solo: la castagna. Naturalmente di ricette con le castagne e principalmente di quelle fatte con la sua farina ne conosciamo a bizzeffe: il succulento castagnaccio, gli stuzzicanti necci, i gustosi manafregoli e chi più ne ha più ne metta. Eppure, in maniera particolare,  fra tutte queste preparazioni ne spicca una che con il suo contrasto dolce-salato rende questo piatto unico. Polenta e ossi infatti è una ricetta particolare, poichè il gusto dolce della polenta di castagne e il salato della carne attaccata alle ossa del maiale, rende il tutto un matrimonio culinario originale e 
Necci
straordinario. Questo 
 piatto oggi come oggi, nonostante che sia considerato un "piatto povero" e perciò nato dalla miseria e dall'arte "del non si butta via niente", è annoverato come una specialità, talvolta servita in maniera "glamour" in rinomati ristoranti. Tuttavia quello che è importante sottolineare e ribadire nuovamente che questa come altre ricette vedono la loro origine nella povertà che attanagliava la Garfagnana  nei tempi andati. Le castagne abbondavano, e almeno la farina non mancava, così come nelle case contadine non mancava nemmeno il maiale, che una volta ucciso e spolpate le sue ossa dalla prelibata carne, queste non venivano buttate via, tutt'altro, venivano conservate e riposte in un largo recipiente con l'aggiunta di rosmarino, un pizzico di cannella e pepe. Dopo che erano passate alcune ore e dopo averli rotolati nel sale grosso, sempre in un recipiente venivano sistemate a strati,  fatto questo ogni strato a sua volta veniva ricoperto di sale e venivano fatti riposare per dieci giorni in un luogo fresco ed asciutto. Solitamente le parti del maiale preferibili per questa ricetta erano e sono gli ossi della bistecca, del petto e gli zampucci con abbastanza carne attaccata. Passati questi fatidici dieci giorni venivano poi lavati dal sale con acqua corrente e messi a bollire in abbondante acqua per più di due ore. A cottura ultimata venivano portati in tavola e serviti con
le ossa del maiale
fumante polenta di neccio. Insomma, una ricetta tipica garfagnina, ma che... a quanto pare, da un punto di vista geografico propriamente garfagnina non è, così come oggi intendiamo i confini della nostra valle. In ogni caso, bando a campanilismi e diatribe varie, mi è d'uopo dire e sottolineare, prima di addentrarmi nel tema, che ai tempi della possibile "primogenitura" della ricetta, cioè intorno al XIV secolo, per Garfagnana s'intendevano tutti quei territori a nord della Val di Lima e quindi a buon titolo rientravano anche Coreglia e Barga. Si, perchè a quanto pare tale squisitezza sembra nata proprio a Barga. Tale ipotesi, almeno a quanto io sappia, non è avvalorata da nessun documento, quindi prove a sostegno di tale tesi non esistono, però rimane il fatto che la vulgata nei secoli diffuse questa conoscenza e siccome "vox populi, vox Dei", un fondamento di verità probabilmente ci sarà. Fatto sta che i destini di questa ricetta sono legati ad una morte. Tutto infatti cominciò di lì. Anno di Grazia 1328 in data 3 settembre Castruccio Castracani degli Antelminelli morì per un'improvvisa febbre malarica. Per chi non lo sapesse il Castracani fu uno dei condottieri più valorosi d'Italia. Nel tempo, attraverso 
Castruccio Castracani
le sue conquiste, diventò Signore di Carrara, Lerici, Pisa, Pistoia, Pontremoli e Sarzana, nonchè Gonfaloniere del Sacro Romano Impero e soprattutto divenne Duca di Lucca, sua città natale. Era infatti il 1316 quando si sostituì come Signore di Lucca al già Signore di Pisa Uguccione della Faggiola. Fra i possedimenti di Lucca c'era anche Barga e proprio con Castruccio Castracani Barga tornò ad essere un'importante Vicaria. Il nuovo signore e padrone riedificò quelle stesse mura distrutte dagli stessi lucchesi anni prima (1298) per questioni di contrabbando e di commercio con Firenze, e proprio anche quel commercio, che per lunghi anni era venuto meno riprese vigore. C'è da dire però che 
i barghigiani non vedevano di buon occhio i lucchesi, con gli anni che passavano tolleravano appena la sudditanza a Lucca, dall'altra parte però ben si guardavano di ribellarsi nuovamente alla città delle mura, poichè proprio il Castracani, fra le altre cose era noto anche per la sua spietatezza e crudeltà. Tutto però cambiò quel suddetto 3 settembre 1328 quando il condottiero lucchese morì. I barghigiani allora presero coraggio e nel 1331 in men che non si dica si dichiararono volontariamente sudditi di Firenze. Lucca dopo la morte del suo Signore era ormai allo sfascio, venne più e più volte venduta, fino a che nel 1341 i fiorentini l'acquistarono definitivamente per ben 100 mila fiorini d'oro. Il resto delle Signorie locali però non volle rimanere inerme di fronte a questi accordi e Pisa gelosa e spaventata dell'ingrandimento di Firenze invase tutte quelle terre già acquistate dalla città del giglio, Barga compresa. In quattro e quattr'otto le Vicarie di Coreglia e di Castiglione caddero nelle 
Barga nel 1500
mani pisane, mentre per l'ostinata Barga cominciò un lungo assedio. Abbiamo visto nei film e nei libri quanto può durare un'assedio: giorni, mesi, addirittura anche anni. L'assedio mira allo sfinimento della popolazione, l'esercito che circonda le mura conta proprio ad indebolire gli assediati, a non fargli avere comunicazione con l'esterno, puntando più di ogni altra cosa a non far
 pervenire mezzi e soprattutto cibo e così fu anche per Barga. Erano passati mesi e ormai le riserve di cibo si stavano esaurendo. Qualcuno attanagliato dai morsi della fame aveva proposto di cedere ai pisani, di aprire le porte del castello, in questo modo almeno le donne e i bambini si sarebbero salvati dall'inedia. D'altronde gli abitanti di Barga avevano mangiato tutto il commestibile, dalle bacche, alle erbe di campo, ai frutti più strani ed impensabili. Ciò che si poteva arrostire era stato arrostito: polli, conigli, uccelli e maiali...  Proprio di quei maiali erano rimaste le sole misere ossa con dei rimasugli di carne attaccata. Ad ogni buon conto, come ben si sa, la necessità talvolta porta all'ingegno e taluni pensarono al modo di preservare queste ossa. L'unica maniera per conservarle sarebbe stata quelle di metterle sotto sale, il sale è un conservante, in questo maniera ci sarebbe stata anche una riserva di cibo per i giorni a venire. Inoltre quello che non mancava in casa era la farina di castagne, tutti ne avevano, chi più o chi meno,
Farina di castagne
oltretutto quella era una vivanda che dava nutrimento e forza. Pertanto dopo alcuni giorni si cercò la maniera di cucinare queste ossa avanzate. Furono messe così a bollire in grossi paioli, mentre in altri misero al fuoco la farina di castagne. Il connubio fu molto gradito e più che altro servì a salvare la pelle ai barghigiani, tanto è vero che ciò permise alla popolazione di resistere all'assedio (e alla fame) alcuni giorni in più, dando  modo ai fiorentini di giungere finalmente a Barga e di sconfiggere i pisani, liberando dall'accerchiamento Barga. Insomma, a quanto pare, fra leggenda e storia vera questa è la genesi del piatto. Che dire... verosimilmente un fondo di autenticità ci sarà, niente nasce dal caso. Comunque sia da qui in avanti quando mangeremo questo tradizionale piatto lo guarderemo con occhi diversi, saremo così consapevoli che dietro ogni pietanza la storia con la esse maiuscola potrebbe aver messo il proprio sigillo. 

giovedì 19 ottobre 2023

Il Monte Forato agli Uffizi... Storia di un quadro unico e del suo pittore

 Michele Mointaigne, Sthendal, John Ruskin, il poeta Keats, per non
parlare del celebre scrittore Johann Wolfgang von Goethe, il poeta inglese George Byron e perfino la scrittrice Mary Shelley, autrice del celebre "Frankestein". Questi furono fra i personaggi più famosi che intrapresero "il Grand Tour". Il Grand Tour, per quelli che non lo sapessero era un viaggio in tutta Europa dove i giovani imparavano a conoscere la politica, l'arte e la cultura del vecchio continente, che (nella maggior parte dei casi) facevano i rampolli aristocratici. La meta principe naturalmente era l'Italia, che era considerata dai più un vero e proprio museo a cielo aperto. Questo giro per l'Europa raggiunse il suo massimo splendore verso la fine del 1700 e la metà del 1800. D'altronde c'era un tempo in cui non esistevano viaggi organizzati, nè tour operator, nè tantomeno crociere di qualsivoglia itinerario e se volevi conoscere il mondo questo era il modo che intraprendevano i giovani dell'alta borghesia europea, che così si prendevano un anno sabbatico dai loro impegni per conoscere il mondo esterno, per conoscere nuova gente e vedere diversi stili di vita. L'Italia era l'obiettivo finale che sicuramente immergeva il visitatore dell'epoca nella storia e nella cultura che forse nessun'altro paese europeo gli poteva dare. Tappe obbligate erano città come Venezia, Roma, Firenze, Napoli, Pompei, c'era anche chi s'avventurava in Sicilia e ai quei segni rimasti della cultura greca.
Naturalmente non era semplice muoversi, non esisteva la guida turistica, ci si spostava lungo un percorso ben definito dai precedenti viaggiatori, non era consigliabile uscire da questi tragitti per via dell'alto rischio di essere rapinati dai briganti. Ma come facevano poi questi illustri giovanotti ad immortalare per sempre questi viaggi unici ed irripetibili? Smartphone di ultima generazione? Macchine fotografiche ultramoderne? Ovviamente niente di tutto questo. L'usanza dei giovani nobili era quella di viaggiare con i loro ritrattisti o paesaggisti al seguito, così da poter fare degli schizzi durante i loro viaggi, in alternativa questi rampolli commissionavano gli schizzi ad artisti locali. Uno di questi intrepidi viaggiatori portava il nome di Karol Markò, lui sicuramente non aveva bisogno di portarsi al suo seguito nessun disegnatore, dato che lui era già uno dei più grandi paesaggisti ungheresi. Lasciò così nel 1822 l'Ungheria, il suo viaggio prosegui in Cecoslovacchia e di li continuò per l'Austria dove si stabilì per alcuni anni a studiare all'Accademia di Belle 
Karol Markò
Arti di Vienna. Dopodichè, riuscì finalmente a realizzare il suo sogno. Nel 1832 grazie all'intervento di un ricco mecenate si trasferì in Italia. Andò ad abitare a Firenze e di lì non si muoverà più per tutta la vita. Attratto dall'arte rinascimentale fiorentina, dalle opere del Michelangelo, del Vasari e di Leonardo pensò che tanta bellezza doveva essere condivisa con i suoi figli, doveva così trovare il modo di fargli raggiungere la Toscana dalla lontana Ungheria. Messi da parte un po' di risparmi riuscì a farli arrivare in Italia. Anche loro erano pittori di tutto rispetto, ma fra Karol (junior) e Andrea, nell'arte pittorica sembrava primeggiare quest'ultimo. Fu così che Andrea per niente intimidito dai giganti dell'arte toscana cominciò a fare scuola di paesaggio. Era stanco di rifugiarsi nel buio di uno studio, condusse così i suoi allievi fra pastori e greggi, prima intorno al Castello di Staggia e poi in Versilia e fu proprio in Versilia che rimase attratto da quei  monti che vedeva in lontananza: le Alpi Apuane, chiese così informazioni agli abitanti del posto che gli raccontarono la bellezza di tali vette e gli narrarono in particolar modo di due singolari montagne: il Monte Forato e il Procinto. Nel frattempo la sua fama cresceva, le sue mostre in giro per l'Italia avevano un 
"Paesaggio Montano"
 di Andrea Markò
Il Procinto sullo sfondo
successo unico, la sua pittura era una pittura vera, rappresentava i paesaggi con meticolosità unica. In questo suo girovagare per mostre il bizzarro destino volle che il Monte Forato ritornasse un'altra volta nei suoi pensieri, visto che fra le mani gli capitò una litografia della disegnatrice Charlotte Bonaparte, nipote di Napoleone, questo disegno s'intitolava proprio "Vue de Monte Forato" (Veduta del Monte Forato). Pensò così che il destino non andava sfidato e armato di cavalletto e pennelli si inerpicò su quei difficili sentieri apuani per poter fissare su tela questa bellezza miracolosa. Era il 1871 quando Andrea creò 
questo dipinto che ci offre una lettura del fenomeno naturale ferma e chiara, che non rinuncia però ad un tocco di sublime romanticismo: la pastorella infatti, piccola insieme ai suoi animali, ci offre la misura e la maestosità della conformazione rocciosa e induce in noi stupore e meraviglia. Negli anni a venire l'opera d'arte passò nelle mani del pittore anglo-fiorentino Robert William Stranger, che nel 1913 la donò alla Galleria d'Arte Moderna
di Palazzo Pitti. Ora il quadro è sotto la tutela de "La Galleria degli Uffizi".


mercoledì 11 ottobre 2023

Il casello ferroviario del Salice: cronaca di un ultimo viaggio...

Le cronache di questo ultimo triste viaggio hanno una data e un'ora
ben precise. Erano le 14:30 del 7 aprile 1908. Fu proprio in quel nefasto giorno che Giovanni Pascoli fu operato da quel funesto male che aveva allo stomaco. Proprio in quell'anno comparvero per la prima volta i segni della malattia da lui definita "solito incomodo" e che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni. Il tutto lo si apprende dalle agende annuali saltuariamente scritte dal poeta, ma è dalla penna della sorella Mariù che il quadro dei fatti si rende nitido, il racconto è come un album di fotografie che permette di capire in pieno la relazione affettiva della sorella verso il fratello, in una girondola di emozioni fatta di turbamenti, preoccupazioni e speranze. Infatti è proprio nelle lettere che Mariù scriveva alla cara domestica Attilia Caproni (figlia del celebre Zi Meo)che tutto compare chiaro ed ineluttabile: "
Carissima Attilia, non so se glielo abbia detto il suo cuore. Ieri 7 aprile alle ore 14 e mezza, Giovannino è stato operato di quel disturbo che le accennai, e che vide anche il dottor Caproni. Era cosa più grave di quello che non si credeva. L’operazione è stata dolorosissima tanto da far uscire dalla bocca di Giovannino qualche alto gemito disperato. Io non le so dire di me. Ero in un’altra stanza con Gulì e nel sentire la voce di dolorosa di Giovannino ero diventata come una furia. Gulì abbaiava disperatamente. Che brutto e triste momento! Non me lo posso levare dalla mente! Hanno preso parte all’operazione tre bravissimi dottori. Ed ora, or l’uno or l’altro se lo curano con un amore indicibile". Era dunque era il 7 aprile 1908 alle 14:30 quando fu operato a Bologna dal professor Bartolo Nigrisoli e  la malattia si mostrò più grave del previsto. Fra questi "bravissimi dottori"
menzionati da Mariù c'erano il fior fiore dei medici italiani, il suddetto professor Bartolo Nigrisoli, un luminare nel campo della chirurgia, amico del Pascoli conosciuto ai tempi dell'Università di Bologna, il professor Severino Bianchini, romagnolo, anch'esso amico fin dalla giovinezza e direttore dell'ospedale di Lucca, importante fu anche l'apporto dato da Antonio Ceci, professore alla cattedra di chirurgia dell'Università di Pisa, fondamentali furono anche le cure del suo medico Alfredo Caproni. Nonostante l'operazione e gli esimi dottori, le cose purtroppo non migliorarono, turbe digestive su base epatica insorsero nuovamente dal 1910 e proprio il dottor Bianchini sottolineava  questo peggioramento: "
Da qualche mese era cominciato un vago malessere, accompagnato a stanchezza, svogliatezza di cibo, senso di inquietudine generale, lento decadere di forze, dimagrimento". Insomma, fra alti e bassi il tempo trascorreva e il male cui affliggeva il Pascoli non presentava più alcun dubbio: neoplasma maligno allo stomaco con metastasi al fegato che già presentava evidenti segni di cirrosi. Questo lo avevano capito bene il buon dottor Caproni e il già menzionato professor Bianchini che nascosero l'evidente gravità a Mariù e allo stesso Giovanni. A peggiorare la situazione ci si mise anche l'ineffabile destino che a volte, anzi direi spesso, si diverte a tracciare strani disegni. Difatti il fedele cagnolino Gulì stava per spegnersi. Era il gennaio 1912 e nel frattempo si stava anche preparando il trasferimento di Giovanni Pascoli a Bologna, in questo modo sarebbe stato agevolmente e maggiormente curato, ma i due fratelli Mariù e Giovanni non ne volevano di sapere di lasciare il povero Gulì morente e si decise così di rinviare qualsiasi viaggio. Tanto è vero che anche il povero cane sembrava avesse avuto il presentimento della
Gulì
malattia che aveva colpito il suo padrone, rimaneva il fatto che anche per lui, come per il suo amato Giovanni erano riservate cure amorevoli. Purtroppo però arrivarono anche i suoi ultimi giorni. Oramai respirava affannosamente, rifiutava ogni cibo, le forze cominciarono a calare di giorno in giorno, quando il 21 gennaio 1912 alle ore 21:45 Gulì morì. Ora, a questo punto, si doveva pensare solo ed esclusivamente alla compromessa salute del poeta. Arrivarono così anche i primi del febbraio 1912 e il Caproni scrisse al professor Bianchini: "
In pochissimo tempo era decaduto. Nel silenzio dei fenomeni si era ordita la malattia insidiosa che, sorta nello stomaco, andava diffondendosi al fegato … Una visita brevissima bastò a rendermi conto della situazione tragica …". La notizia e la preoccupazione ben presto si diffuse in tutto il Regno d'Italia, a Castelvecchio giunse una comunicazione a Mariù di Gabriele D'annunzio: "Leggo stamane cose che mi rendono inquieto. Prego telegrafarmi assicurandomi. Dica a Giovanni che gli sono vicino. Lo abbracci per me". Perfino la Regina Madre Margherita di Savoia s'interessò alla sua salute. Ormai, davanti all'evidenza dei
fatti non rimaneva che organizzare quell'ultimo viaggio tante volte rinviato. Saranno così gli amici più cari a chiedere alle più alte cariche dello Stato un treno speciale che raggiungesse la Valle del Serchio per portare a Bologna il povero malato. Fu il senatore ed ex ministro della Pubblica Istruzione Luigi Rava ad interessarsi personalmente delle cose. Ad ogni modo bisognava ancora decidere la stazione ferroviaria in cui far fermare il treno speciale. La linea ferroviaria Lucca- Aulla era stata inaugurata l'anno precedente, le stazioni erano nuovissime e il comune di Barga, dove Giovanni Pascoli era residente, nella nuova tratta ne aveva ben quattro
la nuova stazione di Castelvecchio
(Castelvecchio, Barga- Gallicano, Fornaci di Barga e Ponte all'Ania), nonostante ciò fu scelto come luogo di fermata un umile casello ferroviario. Per i pochi che non sanno cosa sia un casello è necessario evidenziare che questa struttura non è altro che una casa cantoniera ferroviaria, al cui interno abita e lavora un casellante adibito alla manutenzione e al controllo di quel tratto di linea. Comunque sia fu appunto scelto "il casello del Salice", così chiamato perchè nelle sue vicinanze albergava questa maestosa pianta. La casupola si trovava in località Piezza, nel comune di Gallicano a qualche centinaio di metri da quel "Ritrovo del Platano", l'amata osteria in cui il poeta passava parte delle sue giornate. Questa ambigua decisione rimase però a molti assai strana... Perchè non aver scelto una comoda stazione che poteva essere raggiunta facilmente?
Il casello del Salice oggi
 Alcuni misero in evidenza il fatto che  questa scelta fatta servì per evitare un grande assembramento di folla che avrebbe potuto stancare ed emozionare troppo l'ammalato. Altri ancora portarono avanti motivazioni di risentimento politico da ricercare nelle elezioni parziali per il consiglio comunale di Barga del 1905: "... la stima e quasi la gratitudine dei barghigiani per il Pascoli non diminuiscono: ne sono la prova le elezioni parziali per il consiglio comunale di Barga Il poeta è messo in testa alla lista unica dei tre candidati concordati tra "la crema" e "il popolo" e proposti nella seconda metà di giugno; nel luglio compare nei giornali di Barga la sua accettazione, ripromettendosi egli giovane all'istruzione scolastica del Comune; e il 3 settembre votano 432 barghigiani su 1005, il poeta ottiene ben 428 voti... Ma, nuovo motivo di doloroso dispetto, il giorno dopo viene annullata l'elezione, perchè il Pascoli era, come si diceva, "forestiero", cioè non iscritto nelle liste del Comune. "Ci rimasi male", e ci fu chi, nei giornali locali volle sentirci "una rappresaglia" della massoneria, sia per il suo orientamento nazionalista, sia per il recente discorso su la Messa d'oro. Ma egli non fece che lievi proteste...". In sostanza il Pascoli risultava ineleggibile nonostante la cittadinanza onoraria di Barga e rimase in silenzio fino al giorno dopo le elezioni amministrative del 1907, quando rinunciò proprio a quella cittadinanza onoraria avuta nel 1897. Era il 30 luglio 1907 e il poeta scriveva questa dura lettera al Sindaco barghigiano: "Due anni sono, quasi tutti i voti, quest'anno nessuno ... E perciò sebbene creda di non meritare questo spregio e quindi non me ne curi, non si turbi la S.V Ill.ma se anche per mia parte respingo e rinunzio quella cittadinanza d'onore...; gli elettori hanno tacitamente ma chiaramente detto che nessun onore Barga riceve da me e che nessun onore merito da lei. Sia. Resto contribuente".  Per quattro anni, in una sorta di (auto) esilio, non entrò più nella cittadina. Vi tornerà nel 1911 per fare un vero e proprio comizio in occasione dell'annullamento delle elezioni provinciali a Barga e Coreglia. In sostanza si può dire che qualcuno vide la decisione della partenza dal casello del Salice come un'idea di non dare lustro ed onore di quell'ultimo viaggio (che oramai anche lui sapeva di fare) a quel comune che lo aveva politicamente respinto. Ad ogni modo arrivò anche il fatidico giorno: "
E’ definitivamente stabilito che il treno speciale a disposizione dell’Illustre Professore giungerà domani alle ore 11,52
e ne ripartirà per Lucca alle 11,57, dove giungerà alle ore 13 precise. Facciamo i voti migliori, perche’ le speranze nostre e di tutto il Paese, di una rapida guarigione siano esauditi”
. Il telegramma arrivò il 16 febbraio del 1912 ad Alfredo Caselli, un caro amico del professore, a mandarlo fu un funzionario
 delle Regie Ferrovie. Gli abitanti di Piezza e del Ponte di Campia si misero subito a lavoro per rendere all'amico Giovanni la strada per il casello praticabile e comoda, difatti nel corso di quella notte fu colmato un ripido dislivello proprio per consentire il passaggio del poeta. Il giorno della partenza e di quell'ultimo viaggio arrivò, in quel 17 febbraio 1912. Il paziente lasciò in tutta fretta la Garfagnana, la Valle del Serchio e la sua amata Castelvecchio: "Poi salì sul treno con Maria e i due medici appena dentro nel saloncino per malati ebbe un lampo quasi gioioso, di quella sua gioia che sembrava infantile nel vedere quella vettura quasi camera da letto. A Lucca salì a salutare e a portare i soliti piccoli doni il Caselli; il viaggio fu compiuto senza disagio; verso le 18 si arrivò a Bologna (erano alla stazione alcune delle autorità bolognesi, lo Zanichelli, studenti) e poi la casa in via dell’Osservanza”Il poeta morì a 57 anni, poco dopo, il 6 aprile del 1912. Ad onorare l’ultimo viaggio del poeta la
gente di Gallicano ci pensò subito. E infatti nel settembre del 1912 un comitato pubblico depose una lapide in Piezza, ad opera dello scultore lucchese Francesco Petroni che nelle parole di Italo Pierotti così dice: “Qui Giovanni Pascoli, il 17 febbraio del 1912, giorno tristissimo per se e per la patria,  piangendo dette l’ultimo lampo dei suoi occhi, 
l'ultimo sogno del suo cuore alla valle dei buoni e degli umili, che dopo averla amata, immortalò. Il popolo di Gallicano”. 


Fonti e bibliografia
  • "Lungo la vita di Giovanni Pascoli" Maria Pascoli, Arnoldo Mondadori editore, 1961, memorie curate ed integrate da Augusto Vicinelli
  • "Giovanni Pascoli Tutto il racconto di una vita tormentata di un grande poeta" di Gian Luigi Ruggio, Simonelli editore, anno 1998
  • "Il cipresso e la vite" di Lorenzo Viani, Vallecchi editore 1943
  • "Giovanni Pascoli il nostro poeta. Intervista a Umberto Sereni" Barganews archives https://www.barganews.com/2012/08/20/giovanni-pascoli-il-nostro-poeta-intervista-a-umberto-sereni/
  • "Poesia di Luigi Sorrentino- il primo blog della Rai dedicato alla poesia"- Pascoli l'ultimo viaggio del poeta- pubblicato 17 febbraio 2012
  • "Giovanni Pascoli e la malattia. Tra biografia e scienza medica" della Professoressa Patrizia Fughelli Dipartimento Scienze mediche e chirurgiche Università di Bologna (https://centri.unibo.it/centro-camporesi/it/dna-di-nulla-accademia/patrizia-fughelli-giovanni-pascoli-malattia-biografia-scienza-medica-1#:~:text=La%20malattia%20fu%20da%20lui,ma%20che%20tutto%20andr%C3%A0%20bene.)

lunedì 2 ottobre 2023

Gli animali d'allevamento e il contadino garfagnino, storia di un legame millenario

"Grandezza e progresso morale di una nazione si possono giudicare dal
modo in cui si tratta gli animali
", così diceva Mahatma Gandhi. Gli animali domestici sono oggi parte integrante delle nostre famiglie. Per molti di noi, sarebbe difficile immaginare la vita senza di loro. Rispettati, coccolati e fin troppo umanizzati. Una volta però si badava meno al sottile e nella cultura contadina l'animale, soprattutto quello d'allevamento, era amato e principalmente rispettato per un semplice motivo, era una delle fonti principali di mantenimento per l'intera famiglia. In quei lontani tempi questi animali venivano infatti chiamati  
"animali da sostentamento" per il semplice motivo che servivano proprio al sostegno della famiglia. Oggi la legge li definisce però in maniera molto più cinica "animali da reddito": "DL 26 marzo 2001, n. 146 , gli animali da reddito sono rappresentati da “qualsiasi animale, inclusi pesci, rettili e anfibi, allevato o custodito per la produzione di derrate alimentari, lana, pelli, pellicce o per altri scopi”. La definizione di questo sarebbe poco importata ai contadini garfagnini di quel tempo, quello che contava era allevare in maniera sana i propri animali, importanti e fondamentali nell'economia rurale della Garfagnana. Guardiamo allora com'era il profondo rapporto fra i garfagnini e i propri animali. Partiamo dal lontano medioevo quando l'animale era si rispettato, ma nel contesto e nella mentalità di mille anni fa. Tutto infatti si concentrava su una "brutta" parola: "antropocentrismo", che è quella teoria che affermava che l'uomo era al centro dell'universo e sotto di lui la natura, sia nella forma animale che vegetale. Grande ispiratore di questa dottrina era l'imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II detto "Stupor Mundi" (meraviglia del mondo). Secondo lui sulla Terra esisteva un preciso ordine gerarchico, tutto era sottoposto alla volontà Divina, e a lui, proprio come
Federico II
rappresentante di Dio, tutti gli esseri viventi dovevano dare osservanza ed ubbidienza. Questo valeva anche per gli animali, infatti, non stupiva quando faceva decapitare i suoi amati sparvieri, colpevoli di aver ucciso un'aquila, simbolo del suo Impero. In quest'ottica va quindi visto il rapporto che aveva la gente comune con gli animali e se è vero che tutti gli animali erano sottoposti all'uomo era altrettanto vero che nemmeno gli animali potevano essere considerati tutti sullo stesso piano. Al primo posto c'era infatti il cavallo. I
l cavallo rappresentava il più nobile tra tutti gli animali, perché “attraverso quello i principi, i magnati e i cavalieri potevano essere distinti dai minores”. Non stupisce, perciò, che i trattati relativi alla cura degli animali riguardino principalmente questo vero e proprio status symbol del tempo. Oltre al cavallo, venivano presi in considerazione prevalentemente gli animali il cui lavoro o la cui carne erano considerati necessari all’utile del genere umano: i buoi, indispensabili per il lavoro nei campi, le pecore, fondamentali per la produzione della lana, i rapaci, utilizzati dai nobili e dai sovrani nelle loro attività venatorie, i cani da caccia e da pastore, gli animali da cortile e i maiali. Naturalmente con l'andar dei secoli questa bislacca teoria andò scemando, quello che rimase però inalterato, a parte alcune variazioni, fu la scala gerarchica attribuita agli animali d'allevamento e questo era dovuto dal fatto che questi animali erano una vera e propria rendita familiare
. In Garfagnana tale graduatoria vedeva ai primi posti, buoi, mucche, maiali e pecore che rappresentavano una fonte di reddito irrinunciabile, in quanto, da tutti questi, ogni famiglia traeva dal loro allevamento i prodotti necessari per sopravvivere: il latte per i formaggi e il burro, le uova, la lana per gli indumenti invernali e ovviamente la carne. In (quasi)tutte le famiglie contadine della
Garfagnana esistevano in genere almeno una mucca e un bue, utilizzati per il reperimento di risorse alimentari e per il lavoro nei campi, a cui si affiancavano pecore, capre e maiali le cui carni conservate fornivano l’apporto proteico durante la brutta stagione, non mancavano nemmeno galline e oche. Com’è ovvio, le bestie più tutelate, per le quali valeva la pena di spendere i soldi per il veterinario erano i bovini 
che erano minacciati da diverse patologie più o meno gravi. Tra tutte, risultavano di gran lunga le più pericolose la tubercolosi, la mastite e le intossicazioni alimentari, spesso determinate dall’ingestione di piante velenose o dall’eccessiva ingestione di cibo. Le medicine, per gli animali come per gli uomini, comprendevano essenzialmente elementi vegetali. Venivano impiegate le stesse erbe utilizzate nell’alimentazione umana. Ai questi rimedi, si mescolavano anche pratiche magiche e popolari: per difendere le pecore dai serpenti, che spesso si nascondevano nelle stalle, si consigliava ad esempio di bruciare del legno e dei capelli di donna. Sennò si diceva anche che il sesso dei nascituri, poteva essere influenzato da un corretto e sapiente utilizzo degli elementi della natura: chi desiderava avere pecore di sesso maschile doveva porre il gregge contro vento, mentre i venti da sud erano fondamentali per la generazione delle femmine. C'era anche chi tra i contadini, sempre in questo campo, poteva avere una premonizione guardando la direzione presa dagli animali dopo il coito: se questi si fossero diretti a destra il piccolo sarebbe stato un maschio, se invece gli animali avessero imboccato la direzione sinistra avrebbero certamente generato una femmina. Non solo medicine naturali ed improbabili riti magici, a protezione degli animali i garfagnini rivolgevano le

proprie preghiere a Sant'Antonio Abate. Tanto è vero che affissa nelle stalle compariva spesso l'immagine del santo. Il 17 gennaio, giorno in cui si festeggia era consuetudine benedire gli animali
 che durante quella giornata venivano abbondantemente rifocillati e sottoposti ad un'accurata pulizia, non venivano impiegati nei trasporti, per il lavoro nei campi, macellati e neppure vegliati durante la notte, in quanto si diceva che acquistassero la parola e chiunque si fosse trovato ad ascoltarli sarebbe andato incontro alla morte... Insomma, a conferma dell'importanza di questi animali sono le nefande gesta che facevano nei loro confronti il "Buffardello" e gli altri esseri sovrannaturali che popolavano la Garfagnana. Sono molte le storie che coinvolgono queste bestie e queste entità dispettose che andavano proprio a colpire ciò che il contadino aveva di più caro. Si racconta infatti di quel contadino che trovava nella sua stalla le code delle mucche e i crini dei cavalli intrecciati e ancor meglio quei poveri marito e moglie che possedevano solo due vacche le quali una ingrassava a vista d'occhio, mentre l'altra deperiva quasi fino alla morte, ebbene si scoprì che il buffardello la notte toglieva il fieno dalla mangiatoia della vacca magra per darlo a quella grassa. Che dire poi di quell'altro spiritello chiamato il "Settescintille" che dava il meglio di sè, proprio sul fare del giorno, o meglio, quando era ancora buio e i pastori si apprestavano a portare i greggi al pascolo, appariva allora quel folletto sotto forma di stella luminosa a sette punte, pronto a spaventare il pastore e le povere pecore. Volteggiava, girava su se stesso per tutto il sentiero che portava al pascolo e poi improvvisamente s'inoltrava nei boschi creando ombre spaventose ed inquietanti, facendo assumere agli alberi forme spaventose. Alla fine dello "spettacolo" con tre balzi scompariva dentro una buca del Monte Tambura. Non disdegnava nemmeno entrare dentro le stalle per
mettere paura alle mucche: entrava e scompariva con un gran botto. Anche la Chiesa, nella cattolica e puritana Garfagnana di un tempo, faceva leva sulla salute e l'integrità degli animali d'allevamento, perchè tutti i buoni cristiani osservassero con diligenza tutti i precetti di Santa Romana Chiesa. A riguardo di ciò la storia che vi narrerò è tratta dal libro
 "Descrizione Istorica della Provincia della Garfagnana" di Sigismondo Bertacchi, i contorni della vicenda assumo il contesto di verità assoluta. Era infatti l'anno di Grazia 1612: "Dell'anno 1612, essendo una donna chiamata Caterina Mazzoni da Dalli, d'età d'anni 40 in circa, maritata in Antonio di Bernardino da Orzaglia, dal quale aveva avuto quattro figliuoli, e tal donna era poco osservante de SS. Precetti di Dio. Ella aveva il peccato della bestemmia e quello di non santificare le feste commandate, e per ordinario usare fare le sue bugate (n.d.r: il bucato) ne' giorni festive, et in essi andarle a lavare alla fonte. Avvenne che fattane una in giorno di Domenica, et andatala a lavare, secondo il suo uso, condusse seco alla fontana un paro de vacche, acciò esse mangiassero, mentre essa lavasse la bugata, e mentre ciò faceva, venne una folgore, overo saetta dal cielo, et ammazzò lei, senza che li vedesse nella sua vita male alcuno, e la spogliò nuda, come se fosse allora escita dal ventre della madre; e quella stessa saetta ammazzò anche una delle vacche. Il marito con il Clero andornò a condurre la donna alla sepoltura, il che fatto, condussero anche la vacca nella Terra. Qui ora nasce la maraviglia. La vacca fu
scorticata et aperto il suo ventre vi trovorno tutti i panni della donna, senza aver patito lesione alcuna".
In conclusione non rimane che dire che 
gli animali e i loro indispensabili prodotti sono fra i principali protagonisti di una volta,  che tracciano il profilo della vita quotidiana del mondo contadino garfagnino, in un’epoca trascorsa ma non del tutto perduta, la cui eco oggi, è giunta sino a noi.


Bibliografia

  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi, edito da "Le Lettere", anno 2013
  • Sigismondo Bertacchi, “Descritione istorica della Provincia di Garfagnana” - 1629

domenica 24 settembre 2023

Pelè, il suo soprannome e la Garfagnana...

Pelè da bambino
Alessandro Manzoni nei suoi "Promessi Sposi" scriveva:"... parve di sentire in que' tocchi il suo nome, cognome e soprannome". Il soprannome infatti da secoli e secoli è stato quell'epiteto che ha contraddistinto certe caratteristiche di una persona. La provenienza di questi nomignoli nasce difatti dalla pura fantasia popolare e trova le sue radici fra mille e mille motivazioni: il mestiere, l'aspetto fisico, particolarità del carattere o anche un semplice difetto; alcuni di questi vanno perfino "in eredità": un soprannome si può rinnovare da padre in figlio per generazioni e generazioni. Inoltre, soprattutto negli anni passati, sono serviti da funzione distintiva, in quei luoghi dove erano presenti molte omonimie. In parole povere è giusto dire che il soprannome è stato l'antesignano di quel cognome che oggi tutti portiamo. Tuttavia esiste un altro tipo di "soprannominazione" ed è quella che colpisce i personaggi dello sport e dello spettacolo. Qui le cose cambiano perchè questi nomignoli non sono più popolari ma bensì "elitari", coniati in genere da giornalisti e addetti ai lavori. Pensiamo al calcio. Gianni Brera era uno specialista ad appioppare questi soprannomi: "Rombo di Tuono" per Gigi Riva, "Abatino" per Gianni Rivera e "Penna Bianca" toccò a
Roberto Bettega e così fu per molti altri ancora. Lo stesso avvocato Agnelli con la sua fine arguzia dispensava questi epiteti a destra e manca, "il Pinturicchio" Alessandro del Piero ne sapeva qualcosa. Rimane il fatto che a sottrarsi a questa regola del cosiddetto soprannome "elitario" fu quello che oggi è considerato il più forte calciatore al mondo, che si portava dietro il suo nomignolo già dalla tenera età. Prima di fare il nome, cognome e (soprattutto)il soprannome di questo personaggio è legittimo addentrarsi un attimino nei numeri che lo riguardano, per sottolineare proprio la sua grandezza. Pertanto cominciamo con il dire che i suoi gol furono 
1281 su 1362 gare disputate. Tre volte fu Campione del Mondo (unico giocatore al mondo). Con la sua nazionale (il Brasile)giocò 92 partite, segnando 77 gol. Ma non fu solamente un giocatore formidabile, con gli anni che scorrevano diventò una vera e propria icona del nostro tempo. Rimase uno degli uomini più intervistati e fotografati di sempre, più di un qualsiasi statista o chicchessia divo del cinema. Accolto poi in 88 nazioni, ricevuto da 70 premier, 40 capi di Stato e ben tre Papi. Il "Time" lo inserì tra i 100 eroi ed icone del XX secolo. Lui, come avete bene capito è Edson Arantes do Nascimiento, soprannominato "O Rei" o anche la "Perla Nera", ma da tutti conosciuto come Pelè. E già... è proprio da questo celeberrimo nomignolo che entra in gioco la Garfagnana e la sua gente. La notizia difatti ha del clamoroso e ribalta di fatto quella che era la versione da tutti conosciuta del significato e del perchè il più grande calciatore che sia mai esistito sulla faccia della Terra gli fosse stato affibbiato il soprannome di Pelè. A
riguardo di questo, un'interessante e curioso articolo è comparso sulle pagine de "La Nazione" il 3 gennaio 2023, a pochi giorni dalla morte del calciatore e porta l'autorevole firma di Dino Magistrelli. Comunque sia partiamo dall'inizio e vediamo quello che era la sola versione conosciuta fino ad alcuni mesi fa. La storia nasce da un umile portiere brasiliano che militava nelle squadre amatoriali del suo paese, il suo nome era Josè Lino Conceicao detto "Bilè". Il portiere era amico del padre di Pelè ed entrambi militavano nella squadra del Vasco de Sao Lourenco, nella stato del Minas Gerais. Ebbene, a quei tempi il futuro Pelè era un bambino che non aveva ancora la passione del gol, anzi il suo ruolo preferito era proprio quello di fare il portiere e come tutti i ragazzini aveva un suo idolo con cui compararsi, il suo modello di portiere era proprio quel "Bilè" che giocava con il suo papà. A quanto pare, così narrano le vicende, Edson non riusciva bene a pronunciare correttamente il nome "Bilè" e nelle partitelle con gli amici quando faceva una buona parata era solito dire:-Seguuura Pilééé!!!-, ossia:-Prendilaaa Pilè-. Fu a quel punto che gli amichetti per prenderlo in giro crearono il soprannome di Pelè, un nomignolo che lui odiava ed effettivamente nei suoi racconti così narrava: 
-A scuola mi chiamavano Pelé ed io litigavo con tutti. Pelé è un termine infantile ed i compagni di classe lo utilizzavano per 
Dal film "Pelè"
farmi arrabbiare. Oggi, però, lo adoro, perché è un nome conosciuto in tutto il mondo. Con il trascorrere del tempo, poi, è stato come se nel mio cuore ci fossero due persone: Edson, che si divertiva con la famiglia e gli amici, e Pelé, il calciatore
-. Questa era la versione adottata da tutti fino a poco tempo fa, poteva variare qualche dettaglio, ma in sostanza questo era quello che si sapeva. A stravolgere tutto il 3 gennaio ci pensò con il suo bell'articolo Dino Magistrelli che raccolse le parole di Antonio Bacci di Pieve Fosciana, nipote di emigrati garfagnini nel lontano Brasile, ed è proprio da qui che comincia la stupefacente storia.

Riporterò integralmente l'articolo di Dino Magistrelli in modo che le vicende raccontate non siano snaturate.


"Nella straordinaria vicenda sportiva di Edson Arantes do Nascimento, Pelé, si inserisce a pieno titolo la Garfagnana, grazie a un emigrato di Pieve Fosciana, Pellegrino Bacci, partito per il Brasile nei primi anni del secolo scorso, insieme alla sorella Luisa e al fratello Giuseppe. I Bacci, grandi lavoratori, stabilitisi a Baurù nello Stato di San Paolo, fecero fortuna raggiungendo una certa agiatezza. Vicina di casa era la famiglia di un ragazzino, diventato poi il grande Pelè, e la mamma Celeste, ancora vivente con i suoi cento anni, che aiutava nelle faccende domestiche la famiglia Bacci. Tra i primi a notare le qualità di quel simpatico discolo che scorrazzava nel giardino di casa Bacci e giocava insieme al figlio Gino, anche lui diventato giocatore professionista e poi dirigente del Palmeiras, fu proprio Pellegrino Bacci che lo segnalò alla società dilettantistica locale del Baurù, dove la futura "Perla nera" si trovò a giocare con l’amico Gino. proprio la famiglia Bacci ama raccontare, tra mille aneddoti, che da Pellegrino sarebbe nato anche il famoso soprannome di Edson Arantes do Nascimento, ovvero Pelé. Infatti nella narrazione dello stesso Pellegrino, un giorno, durante una pausa dell’allenamento con i coetanei nelle giovanili del Baurù, il tre volte campione del mondo avrebbe pronunciato per diverse volte: "Me lo ha detto Pelé", riferendosi a Pellegrino, detto Pellè. Agli altri ragazzi parve buffo questo termine e così un po’ per scherno, o forse per invidia per colui che era il migliore con il pallone tra i piedi, cominciarono a chiamarlo Pelè. Questa bella storia che lega Pelé alla Garfagnana ce l’ha raccontata – nei giorni in cui il mondo ha salutato il suo campione – Antonio Bacci, il cui papà Aldo, classe 1927, nipote di Pellegrino Bacci, da giovane aveva trascorso diversi anni in Brasile, impegnato nell’azienda di famiglia. Antonio Bacci ci ha fornito anche una fotografia scattata il giorno di Natale 1961 nella casa dei genitori dell’allora già campione del mondo con la nazionale verde-oro in Svezia e che si accingeva a diventarlo una seconda volta in Cile. Nella foto(N.D.R: quella qui sopra riportata), inviata da Pellegrino al nipote Aldo, già rientrato in Italia da anni, ci sono Pelè con quattro nipoti di Pellegrino, Josè Omar, Josè Salmenzinho, Nelson detto Nelsinho e Adele".

Dino Magistrelli "La Nazione" 3 gennaio 2023

Naturalmente a noi garfagnini piace dare credito a questo nuovo resoconto, proprio perchè nella nostra lunga storia di emigrazione  abbiamo sempre lasciato un segno positivo ovunque siamo stati e ci piace appunto credere che i nostri avi abbiamo lasciato anche un segno indelebile nella grande storia del calcio mondiale.

Bibliografia

  • La foto inserita nell'articolo di Dino Magistrelli è quella in  cui si fa riferimento nell'articolo stesso ed è stata pubblicata da "La Nazione" il 3 gennaio 2023. Proprietario dell'immagine la famiglia Bacci
  • "Pelè giocava nel mio giardino..." di Dino Magistrelli. Da "La Nazione" 3 gennaio 2023

giovedì 28 aprile 2022

La leggenda del fantasma del passaggio segreto della Fortezza di Mont'Alfonso e storia misteriosa delle stanze segrete

"CASTELNUOVO GARFAGNANA (LUCCA), 06 APR - Una stanza segreta è stata
scoperta durante i lavori di restauro e recupero della Rocca Ariostesca a Castelnuovo Garfagnana (Lucca), struttura militare fortificata risalente al Medioevo. 
Gli operai delle ditte incaricate dei lavori hanno notato un abbassamento di una parte di pavimento del piano terra e da lì a poco, spostando una notevole quantità di detriti, dal sottosuolo è emersa una stanza segreta: si tratta di un vano o di un passaggio la cui presenza era finora rimasta sconosciuta e non è escluso che possa condurre ad altre stanze dell'antico palazzo che fu anche la dimora di Ludovico Ariosto". Sono le 20:15, l'Agenzia Nazionale Stampa Associata, a tutti meglio nota come ANSA (la quinta agenzia d'informazione al mondo) rilancia la clamorosa notizia. E pensa un po' che avevo creduto di chiudere quella giornata davanti alla tele in maniera tranquilla e rilassata. La notizia invece mi riportava a ricordi di quand'ero bimbetto. Infatti chi fra noi non ha mai immaginato di avere per sè un luogo dove dedicarsi ai propri hobby e alle proprie passioni, lontano da sguardi indiscreti? E' sempre stato un mio sogno, ma l'ho sempre visto come un'idea uscita solo dai libri o dai film, ma non è sempre così, anzi... Chi studia "castellologia" sa benissimo che nel primo medioevo sia nelle massicce fortezze o negli imponenti manieri era piuttosto usuale scavare cunicoli, passaggi e stanze segrete a vari metri di profondità. Un lavoro duro, da talpe, che veniva fatto con abbondante forza lavoro che creava questi sotterranei, talvolta piccoli ed angusti, altre volte talmente grandi da permettere il passaggio di una carrozza. D'altronde la vita dentro un castello era dura e abbastanza scomoda, si doveva vivere al
suo interno cinti da alte mura di protezione, si doveva rientrare dentro di esse a determinate ore prestabilite, dopodichè, chi non rientrava sarebbe rimasto fuori a passare la notte in preda ai briganti, malfattori e nemici vari. Fra tutti questi nemici i più temuti erano quegli eserciti che in alcune occasioni assediavano la roccaforte di turno e quando da parte degli assediati ormai anche l'ultima speranza di resistere al nemico spariva, quale miglior soluzione per salvarsi la vita c'era che fuggire attraverso stanze che portavano a dei passaggi segreti? Questi passaggi, spesso conducevano verso impenetrabili selve nascoste alla vista di chicchessia o anche  in direzione di altre inaccessibili fortezze. In questa fuga verso la salvezza avevano la precedenza i reali o i Signori del castello, si doveva in questo modo evitare un pericoloso vuoto di potere, ma non solo, un'altra funzione di questi passaggi era quella di avere un fondamentale ricambio di soldati fra una fortezza e un'altra. Quello che però è evidente che queste stanze segrete non sono un'invenzione medievale, già ai tempi dell'antico Egitto illustri architetti progettavano e realizzavano immensi monumenti funerari che prevedevano stanze e passaggi segreti per proteggere i tesori del loro faraone, alcune di queste ancora oggi rimangono segrete. Tornando a casa nostra uno dei passaggi segreti più famosi è quello del Castello Sforzesco di Milano, che si snoda fra cunicoli attraversabili anche a cavallo, fino ad arrivare alla campagna aperta. Altrettanto famoso è quello del Passetto di Borgo, un passaggio che collega il Palazzo Vaticano con Castel Sant'Angelo,
Passetto di Borgo
fortezza considerata inespugnabile. Sarebbe altresì sbagliato pensare che con l'avvento dell'era moderna la necessità di costruire stanze segrete sia svanita, tutt'altro. Oggi si chiamano "Panic Room". La Panic Room non è altro che una camera di sicurezza interna che permette di trovare riparo in caso di aggressione. Questa stanza ha trovato molta diffusione nei paesi anglosassoni ed è riservata a persone che se la possono permettere: attori, personaggi famosi e soprattutto politici. Essa non è una semplice stanza segreta ma un vero e proprio bunker, dotato di rivestimento in cemento armato, di porte blindate e antiproiettile, di sistemi tecnologici avanzati per comunicare con l'esterno. Manco a dirlo la più famosa è quella della Casa Bianca, accessibile attraverso porte nascoste negli angoli più impensabili. Ma torniamo però alla stanza segreta scoperta nella Rocca Ariostesca di Castelnuovo. Dopo l'incredibile scoperta la domanda più ricorrente è una sola. Dove condurranno questi misteriose camere? Alcune ipotesi sono state fatte... Chissà, potrebbe condurre ad altri locali dell'antico palazzo? O Forse potrebbe essere la classica "via di fuga"? Fra tutte le ipotesi fatte però, quella più affascinante narra del leggendario passaggio segreto che collegava la Rocca Ariostesca con l'imponente Fortezza di Mont'Alfonso, che si trova più a monte di qualche centinaio di metri. Da sempre si è parlato di questo
passaggio, molti danno per scontato che sia sempre esistito, ma in effetti nessuna l'ha mai trovato. Naturalmente le teorie di dove potesse sbucare sono molteplici. C'è chi dice che forse poteva arrivare in Piazza Umberto I, chi asseriva che arrivasse proprio dentro la Rocca. Altri ancora invece "giurarono" di averne visto una porzione durante i lavori di scavo e manutenzione degli acquedotti comunali. D'altra parte c'è chi assicura che all'interno del favoloso passaggio ci sia imprigionato un fantasma. Tutto insomma rimane avvolto nel mistero, nel mito e nell'enigma più recondito. Rimane comunque opportuno mettere in guardia coloro che andranno a fare i futuri scavi, forse potrebbero incontrare chissà chi o forse chissà che cosa... Questa è infatti la leggenda del fantasma del passaggio segreto della Fortezza di Mont'Alfonso. Come in tutte le rocche, fortezze e castelli che si
Fortezza di Mont'Alfonso
rispettino, al comando di esse vigeva sempre un castellano che aveva il compito di guidare la vita del castello, sia da un punto di vista civile che militare. Difatti a questa regola non sfuggiva nemmeno la Fortezza di Mont'Alfonso, dato che, anche li risiedeva con tutta la sua famiglia il suo Signore, in quella che oggi è denominata "la casa del Capitano". Il castellano oltre a due figli maschi aveva anche una figlia femmina di nome Lucia, di cui era a dir poco geloso, tanto geloso da proibirle l'uscita dalla fortezza stessa. Ma come ben sappiamo la fortezza era costituita da valorosi soldati e fra questi soldati c'era un fascinoso ufficiale. Nonostante i severi controlli cupido scoccò però la sua freccia e la fanciulla s'innamorò perdutamente del militare. I due giovani infatti divennero  amanti all'insaputa di tutti, il problema stava però nel dichiarare questo amore al padre geloso. Il fato tuttavia ci mise lo zampino e durante una delle frequenti guerre fra gli Estensi e i fiorentini, anche i soldati della fortezza furono chiamati a dar man forte all'esercito del Duca di Modena. La battaglia in questione fu dura, morti da entrambi le parti e nel bel mezzo di uno di questi combattimenti il giovane ufficiale salvò la vita al castellano. Una
La rocca Ariostesca
volta, come ben saprete, la cavalleria era cosa seria e il protocollo prevedeva che colui che aveva avuto salva la vita dovesse concedere al suo salvatore un desiderio e così il castellano fece con il suo ufficiale. Il giovane difatti non si fece sfuggire l'occasione e chiese al padre la mano di sua figlia Lucia, confessando pubblicamente l'amore corrisposto della futura sposa. La richiesta fu delle più ferali che il signorotto potesse ricevere, avrebbe quasi preferito perire valorosamente in battaglia che cedere a questo desiderio, ma a questo punto non poteva nemmeno negare il consenso alle nozze, e così fu. L'ufficiale felice come non mai chiese il permesso al futuro suocero di andare a Modena per avvisare i genitori della lieta notizia. Il castellano furbescamente acconsentì. Nei giorni successivi il padre prese così da parte la ragazza e dato che sarebbe diventata la Signora della Fortezza era giusto che ne conoscesse tutti i suoi segreti, che erano ad esclusiva conoscenza di colui che la comandava. Fra tutti gli arcani che ci potevano essere dentro il fortilizio, il più misterioso e segreto era quello della galleria che conduceva di lì fino al paese di Castelnuovo. Così fu che un giorno, lontano da occhi indiscreti il padre portò la ragazza a conoscere questo fantomatico passaggio. Una volta davanti all'entrata aprì il cancello d'ingresso e nell'attimo preciso che la ragazza ebbe oltrepassata la soglia d'accesso il castellano la richiuse immediatamente, imprigionando di fatto la sventurata. In men che non si dica, fra le urla disperate della fanciulla, il malvagio uomo si adoperò senza indugio alcuno a murare l'ingresso della galleria, in questo modo "l'amata" figlia non sarebbe stata sua, ma
La stanza segreta trovata
a Castelnuovo (foto de "Il Tirreno")
nemmeno di nessun'altro. La poveretta infatti li rinchiusa in poco tempo morì di fame e di sete. Il castellano nei giorni successivi raccontò alla gente che la figlia era fuggita, la stessa versione fu poi raccontata al ritorno dell'ufficiale. Il giovane disperato cominciò a cercare Lucia in ogni dove, naturalmente le ricerche non portarono a nessun esito e preso dallo sconforto, passato un po' di tempo, abbondonò l'incarico e tornò nella sua Modena. Di li a poco anche per il perfido 
castellano il destino fu avverso, una malattia misteriosa lo portò inesorabilmente alla morte. La storia però non finì qui. Si racconta che il fantasma di Lucia ancora oggi vaga in quel passaggio segreto che collega la Fortezza con Castelnuovo. La sventurata di fatto è ancora lì che cerca di fuggire da quella maledetta prigione. La sua anima non ha ancora pace, quella pace sarà ritrovata solamente quando uno dei varchi d'entrata del passaggio sarà nuovamente aperto...


Bibliografia 

  • "Garfagnana isola fantastica" di Alberto Cresti, edito Banca dell'Identità e della Memoria, anno 2020